La carta non dimentica
Quando un manoscritto ti guarda negli occhi
DIETRO LA SCRITTURA


C’è un momento in cui il manoscritto smette di essere un tuo alleato.
Ti osserva.
Non è più un complice. Non è nemmeno un figlio.
È un testimone. E sa.
Lo hai scritto tu, certo. Con le tue ossessioni, i tuoi tic, la tua fame di verità.
Ma quando lo rileggi, dopo settimane o mesi di distanza, non sei più la stessa persona che lo ha scritto.
E allora la carta si vendica.
Ti sbatte in faccia ogni trucco.
Ogni scorciatoia.
Ogni volta in cui hai voluto “fare scena” anziché cercare il cuore nero della tua storia.
Il manoscritto non mente.
È il tuo specchio più feroce.
E se hai il coraggio di guardarlo negli occhi, qualcosa cambia.
Mi è successo con L'Eredità Segreta di Napoleone.
Una notte. L’una passata.
Rileggevo una scena a Le Plantay, nel mezzo di un dialogo tra Jacques e un vecchio esoterista francese. Tutto filava. Atmosfera, ritmo, contenuto.
Poi una frase.
Una frase inutile.
Bella, magari. Ma sterile.
Piazzata lì per mostrare che “so scrivere”.
Un’acrobazia da prestigiatore che voleva distrarre il lettore dal punto vero.
Ho chiuso il file. Mi sono alzato.
Ho bevuto un bicchiere d’acqua come se avessi ingoiato vetro.
Scrivere un romanzo non è un atto creativo. È un processo di spoliazione.
Come se dovessi ogni volta toglierti gli abiti e restare nudo davanti a una pagina che ti giudica.
Un manoscritto terminato è un essere vivente.
Assorbe chi sei.
Inquina le parole quando menti.
Le fa brillare quando tocchi qualcosa di autentico, anche solo per sbaglio.
Ecco perché non puoi correggerlo solo con la testa.
Devi sentire la vergogna. Il fastidio. Il senso di colpa.
Perché solo da lì nasce la riscrittura vera.
Molti mi chiedono: “Ma come si capisce quando un testo è finito?”
Io non lo so.
Ma so riconoscere quando un testo ti guarda in faccia e non abbassa lo sguardo.
Se ti sembra che ti stia spiando, se quando lo rileggi hai un brivido come se qualcuno stesse leggendo te... allora ci sei quasi.
Non serve altro.

